Ho visto Tripoli ed Amsj, e le tende sull'erba tra le case della città e in mezzo agli scarichi industriali e ho visto Ibrahim e Faddah che ha 23 anni e mi ha insegnato che vuol dire non lamentarsi, e mi ha fatto il tè più buono della mia vita.

Questo è il diario della mia missione in Libano.


Lino Guanciale
attore

Il mio viaggio
con i rifugiati

Volti, voci, odori, esperienze ed emozioni.

Il Libano è grande come l'Abruzzo. Che impressione mi ha fatto sentire 
che per il paragone viene utilizzata proprio la mia regione...

Sintetizzare in poche righe tre giorni densi di incontri, volti, voci, odori, esperienze ed emozioni non è possibile. 

Provo e riprovo a riassumere il mio piccolo viaggio in Libano e i pensieri scappano da tutte le parti, divago, mi perdo. Ogni volta che comincio a parlarne con le persone a me vicine sento di non poter ridurre tutto a due o tre frasi ad effetto, sento che vorrei avere tempo per fare un lungo discorso, che vorrei raccontare tutto quello che tutte le donne, gli uomini e i bambini che ho "intervistato" mi hanno detto, parlandomi dei loro problemi, delle loro nostalgie, delle paure, delle speranze. Sento di fare un torto a tutti loro scegliendo qualcuno di cui parlare che sia rappresentativo per gli altri, e soprattutto mi accorgo di non avere soluzioni, di non poter dare una ricetta, anche solo teorica, che faccia sparire il dolore, che riconsegni a chi l'ha persa la propria normalità, che faccia ripartire il futuro. Questa è la prima sensazione che ha segnato quei giorni passati nelle tende e nelle povere case di chi ha perso tutto se non i ricordi, i tormentosi ricordi... l'impotenza e il senso di insufficienza dei miei sforzi. 

La seconda è senz'altro l'ammirazione sconfinata per quegli operatori UNHCR che con quelle stesse sensazioni e frustrazioni combattono ogni giorno, disciplinando la rabbia e lo scoramento che ne deriva per concentrarsi su quello che possono concretamente fare per i rifugiati, in un paese che di certo non li perseguita, ma si trova comunque davanti ad un enorme problema di accoglienza, i cui numeri fanno immediatamente impallidire quelli pur importanti di cui facciamo esperienza sulle nostre coste e ai nostri confini. 

Il Libano è grande come l'Abruzzo – che impressione mi ha fatto sentire che per il paragone viene utilizzata proprio la mia regione – ed è popolato da 5 milioni di cittadini libanesi. Oggi  vi si trovano approssimativamente 1 milione e mezzo di rifugiati siriani in fuga dalla guerra. Sono la comunità straniera più numerosa. Se al tavolo di un bar di Beyrouth vedeste cinque persone, statisticamente una di loro sarebbe un rifugiato siriano. Una proporzione impressionante. 

Vivono in una galassia di insediamenti piccoli o piccolissimi, fra tende e palazzi occupati, visto che il governo non autorizza la formazione di grandi campi strutturati. Assisterli, quindi, è difficilissimo, richiede un'incredibile capacità di coordinamento, perché numeri simili possono davvero far impazzire. Eppure gli operatori UNHCR che ho incontrato li conoscono e li monitorano tutti, in modo da aggiornare continuamente i ranking per la concessione di sostegni economici e per le opportunità di reinsediamento all'estero, e lo fanno senza mai cedere perché anche di fronte alle tragedie non bisogna perdere la calma, e giorno per giorno bisogna verificare a chi può toccare, anche solo per millesimi di differenza di posizione nelle liste, la distribuzione di materiali per impermeabilizzare gli alloggi e contrastare il grande freddo che è ormai arrivato, l'enorme opportunità di lasciare il paese o di ricevere qualche dollaro in più per il riscaldamento a benzina o il rifornimento alimentare. 

Questione di vita o morte, questione di giustizia. E di dolore, anche... perché aiutare tutti non si riesce, non si può. E tutti ne avrebbero – fidatevi – bisogno. Mi veniva sempre da pensare a quella scena di "Schindler's list" in cui il protagonista piange a dirotto perché non ha potuto salvare più gente, perché non ha potuto allargare la lista... ma la lista è vita, gli viene risposto da chi è riuscito a salvare. Anche lì, in Libano, la differenza tra farcela o non farcela dipende dalla lucidità, dal senso di giustizia, dalla capacità di lavoro diurna e notturna di chi non dorme per riuscire a controllare tutto, nonostante il dolore per chi verrà escluso anche se per poco. Perché quello che importa è aiutare il più possibile, e quando non si riesce a fare tutto per tutti non è vero che allora è meglio mollare... bisogna andare avanti e fare bene il proprio mestiere, soccorrendo più persone possibile. Lì sta quello che ognuno di noi può fare, anche con un piccolo contributo. 

Ahmed, un giovane padre di famiglia, nero per il lavoro in una fabbrica di sale, più piccolo di me ma con tre bambine tutte e tre malate, intossicate dai miasmi degli scarichi industriali riversati al margine del loro insediamento, costruito in mezzo al canale di scolo di un cementificio, mi ha chiesto sorridendo: "Puoi portarci in Italia?", "No purtroppo", ho risposto, "E allora perché sei qui? Chi te lo fa fare?" "People clicks my videos", gli ho detto dopo una lunga esitazione – quanto mi hai fatto sentire inutile e in imbarazzo, mio caro Ahmed... e quanto mi hai insegnato –, spiegando che il contributo che posso dare è cercare di renderli più visibili nel nostro paese, affinché più persone decidano di mandare aiuti: "Allora facciamo un bel video", mi ha detto ridendo in quella tenda spoglia di tutto, dove io neppure riuscivo a respirare: "Proviamoci!", ho risposto ricacciando il groppo del pianto giù nello stomaco e vestendo il sorriso più bello che potevo. Proviamoci, penso ancora adesso mentre scrivo. Proviamoci, vi dico.

In Libano ho visto...

E ora eccola, breve, la mia di lista, compilata in omaggio a un poeta di cui ho avuto l'onore di essere amico, Edoardo Sanguineti. Calcando l'incipit della sua bellissima Nella mia vita ho già visto provo a citarvi tutti, amici di un solo giorno o di un'ora sola.

In Libano ho visto: le tende della Valle di Beka e Mariam e Abdel Karim, agricoltore e all'occasione muratore, e ho visto la loro figlia Kadija aiutare i bambini delle altre tende a fare i compiti di matematica, e Kadija non dorme bene perché sul suo letto la tenda è rovinata e fa entrare acqua e freddo, e sogna spesso lo scoppio della bomba che la sfiorò a casa sua, ad Aleppo, quando papà e mamma decisero di portarla via di lì, e il desiderio più grande di Mariam e Abdel Karim è che i loro figli crescano con una buona educazione e che siano persone per bene...


E ho visto Kasim e la sua famiglia, scappati dalla campagna di Damasco, dove lui faceva l'allevatore, e Kasim avrebbe bisogno di un intervento agli occhi, e la stessa malattia ce l'ha una sua figlia, e l'altra figlia che disegna mi ha regalato due suoi bozzetti: le colombe della pace, e lì l'unico che lavora è suo fratello Moahmed: operaio che vorrebbe fare il calciatore, e che pare fosse un numero 10 niente male a Damasco, e "Vivevamo come re e regine a casa nostra!" dice la mamma che piange sempre sotto il suo velo, e tutti i sogni e i desideri di tutti sono concentrati sull'unica figlia che ancora studia, Esmeh di dieci anni: "Diventerà dottore!", ripete Kasim, che mi offre il caffè e che vuol venire al mio matrimonio "Perché è ora che ti sposi, amico mio!", e il suo sogno più grande è tornare in Siria e ricominciare a fare il formaggio...


E ho visto Tripoli ed Amsj, e le tende sull'erba tra le case della città e in mezzo agli scarichi industriali, e ho visto Ibrahim e Faddah, e lui mi ha detto che coltivare la terra sua sarebbe bello, e che ora fa il cameriere perché "Quando un fiume grande si estingue è meglio uno piccolo che continua scorrere", e ha 23 anni e mi ha insegnato che vuol dire non lamentarsi, e mi ha fatto il tè più buono della mia vita, e ho conosciuto Nur, che piange la tosse delle sue figlie fra i fumi e gli scarichi di un cementificio accanto al mare, e mi guardava pregando che potessi pagarle l'ospedale...

E ho visto i volontari che assistono rifugiati come loro e ho ascoltato la storia di quello tra loro che è stato torturato e di quello a cui un cecchino ha rischiato di spezzare la schiena, e ora aiutano chi come loro vorrebbe solo tornare a casa, e sono pure laureati e non possono farlo il loro mestiere lì, perché i siriani possono fare solo i contadini i muratori o i camerieri, per la pace sociale, dicono, "Avete bisogno di un ingegnere dalle tue parti in Italia?", mi ha scritto uno di loro su facebook, e l'ho letto al mio ritorno, e ho pianto, ho pianto tanto, perché vorrei portarlo qui, vorrei poter portare tutti in un posto dove puoi sognare...

E quello che si può fare è questo: scrivere e mostrare, e sperare che altri ancora lo facciano e che in tanti vogliano aiutare. E nella testa ho il sorriso di quel bambino che si chiama Saddam che alla fine, dopo aver giocato assieme con le costruzioni, mi ha chiesto "Ci sei quando torno da scuola?"... "Lo spero, Saddam. E spero presto di tornare", ed il sorriso suo nella mia testa ancora non si spegne.

Lino Guanciale 
per UNHCR

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